Jacopo Paglione
Intervista a Jacopo Paglione, fotografo
Nella puntata di oggi di Iride intervistiamo il fotografo Jacopo Paglione.
Jacopo Paglione ci racconta il suo progetto 'Bedroom Tales' dove cattura gli spazi intimi dei millennials nel mondo. Paglione condivide il suo percorso come millennial e individuo queer, utilizzando la fotografia come strumento per esplorare, scoprire ed esprimere la propria identità. Parla della sua infanzia, l'evoluzione dei suoi gusti artistici e di come queste esperienze abbiano influenzato il suo lavoro.
Discute inoltre del suo processo artistico e del lavoro dietro 'Bedroom Tales', del suo lavoro con protagonisti di primo piano dello spettacolo e della moda, l'impatto sul suo lavoro delle pressioni sociali e i suoi progetti recenti tra cui 'Milza'. Ci racconta inoltre la sua collaborazione con l'associazione Fiore del Deserto, alcune riflessioni sull'essere queer e sulla psicanalisi, il lavoro con la galleria BOYS! BOYS! BOYS! e la sua aspirazione.
Scopri di più su Jacopo Paglione sul suo sito internet e su Instagram.
Ascolta l'intervista completa
🎧 Spotify
🎧 Apple Podcasts
🎧 Amazon Music
🎧 Youtube
Leggi l'intervista
Iride: Stai ascoltando Iride, il podcast che guarda il mondo attraverso gli occhi di artiste e artisti LGBTQ. Io sono Guido e oggi scopriremo passo a passo il mondo di Jacopo Paglione.
Benvenuto.
Jacopo Paglione: Grazie. Guido. Ciao. Ciao a tutti.
Iride: Con il tuo progetto Bedroom Tales sei entrato nelle camere da letto di decine di Millennial in tutto il mondo per fotografarli. Anche tu sei un Millennial. Che cosa c'è nella tua camera da letto?
Jacopo Paglione: Ti posso dire che in realtà è una camera abbastanza spoglia. Abbastanza spoglia dove in realtà la uso solamente per dormire. Però ti posso dire qual era la mia camera da letto quando ero piccolino, quando ero adolescente. Era una camera dove il muro affianco il mio letto era letteralmente tappezzato da ritagli di giornali di band che ascoltavo, punk metalcore o cose così.
E avevo anche ritagli di testi che io riscrivevo a mano. Testi insomma che erano a me molto importanti. Quindi era proprio un muro completamente tappezzato. Mia madre mi odiava e questa era proprio la prima cosa che saltava all'occhio,
Iride: Quali erano i tuoi gruppi punk preferiti, a questo punto?
Jacopo Paglione: Io ho avuto tante fasi, ho sono cresciuto con i Rancid, i Distillers, poi sono passato al Nu Metal con i Korn, gli Slipknot, per poi passare all'emo al metal core. Insomma As I Lay Dying, insomma cose che magari non tutti ora sono abituati a sentire, forse.
Iride: Hai deciso di indagare le camere da letto di Millennial e lo hai fatto per un motivo preciso o perché ti ci rivedi in qualche modo, essendo anche tu parte di quella generazione?
Jacopo Paglione: Entrambe le cose. Nel senso che io, essendo parte della generazione, ho voluto dare un po' una voce. È stata una generazione un po' bistrattata quindi ho voluto dare un po' una voce. Ma la ragione principale è stata quella di volermi ritrovare negli altri. Era un periodo in cui avevo più o meno sui venticinque, ventisei anni quindi a metà dei miei vent'anni,. Mi ero ritrovato in un momento in cui mi sentivo abbastanza in difficoltà, non sapevo dove andare a parare. Era come la sensazione di dover essere adulto senza poter esserlo, non sapere dove sarei andato a finire.
Insomma era un periodo un po' di difficoltà e il nome viene da quei momenti in cui ero con i miei amici sul letto a parlare insomma del nostro futuro, delle nostre paure, anzi preoccupazioni, immaginando quello che avremmo potuto fare e quello che non avremmo assolutamente voluto fare. Bedroom Tales perché è proprio i racconti che ci facevamo l'un l'altro sul letto e che poi ho rifatto con i soggetti che poi ho ritratto e sono persone che ho trovato online tramite social media. Non avevo ancora Instagram tra l'altro.
Me lo sono fatto più o meno appositamente. Alcuni sono amici di amici e sono persone che ho trovato in giro per il mondo tra Roma, Berlino, Parigi, Barcellona, Madrid e New York. New York ce ne sono un po'. È partita proprio da questa esigenza di chiedermi "ma sono l'unico a sentirsi così?" cioè funziona solamente così qua a Roma o tra la mia piccola cerchia di amici, oppure è una cosa comune?
Ovviamente ho scoperto che era una cosa molto, molto comune e mi ha fatto sentire ovviamente meno solo innanzitutto ma la cosa più bella è chemi ha regalato delle esperienze bellissime. Mi ha aperto.
Mi ha aperto proprio il cervello, mi ha aperto il mondo, mi ha dato la possibilità di conoscere storie assurde, entrare in case assurde di gente che si era appena trasferita o stava per lasciare casa o sono entrato in case familiari e poi vedere come ognuno di noi tratta la propria camera. È una cosa incredibile perché comunque in quell'età molte persone trattano la camera come fosse un tempio. Il posto in cui ci si va a rifugiare e magari hai una casa condivisa, quindi il resto della casa non è tuo quindi magari sei proprio dentro il tuo posto sacro.
Ed è una cosa meravigliosa vedere come qualcuno lo usa in queste case anche temporanee, in quel preciso momento come sono e che cosa hai deciso di metterci su. Insomma, è stata una cosa bellissima.
Iride: Perché pensi che la tua esperienza sia comune a così tante persone e soprattutto è un'esperienza comune a livello generazionale oppure pensi che sia altro?
Jacopo Paglione: Innanzitutto non penso di essere speciale. Nel senso ciò che ciò che io provo e ciò che io sento è una cosa assolutamente comune e penso sia anche una cosa generazionale. La generazione prima di noi era in un momento di boom economico in cui ci è stato raccontato che potevamo fare tutto e che eravamo in grado di fare tutto e quando la realtà era completamente diversa.
Poi il boom economico chiaramente è finito e ci siamo ritrovati un po' col culo a terra, con tutte queste cose che potevamo fare, ma non sapevamo come farne e soprattutto la società non sapeva cosa farne e c'era c'era talmente tanta confusione che molto spesso molti di noi si sono trovati poi spaesati, quindi penso sia una cosa assolutamente comune.
Iride: Com'è stato entrare in contatto con delle persone che ti hanno aperto la loro intimità così tanto?
Jacopo Paglione: È stata un'esperienza incredibile, nel senso che io non prendo mai per scontato la disponibilità di chi fotografo che sia per le foto delle loro camere da letto, per i nudi che ho fatto in precedenza o anche in generale perché comunque affidarsi a qualcuno è un gesto molto bello che spesso non sono stato in grado di fare io stesso, quindi appunto non lo prendo per nulla per scontato. Nel particolare in Bedroom Tales è stato molto bello perché comunque vedi la fiducia che l'altro ripone in te e vedi anche la loro voglia e la loro intenzione di raccontarsi. Quasi smania a volte è stata, ed è stato molto bello.
È stato anche bello non solo vedere come loro si affidano a te ma anche come loro si sono affidati al messaggio perché lo hanno capito e con alcuni di loro sono ancora in contatto e nel corso degli anni per altri motivi sempre legati al progetto, sono sempre stati disponibili. Molto spesso magari qualcuno fa un paio di foto e poi "vabbè, pazienza". E invece invece sono stati tutti mega mega disponibili sempre sul pezzo ed è stato molto bello vedere come loro si siano concessi a me, in tutto e per tutto.
Una cosa che mi ha sempre dato molta gioia del progetto al di là poi del materiale che ho tirato fuori è sono proprio i momenti che ho condiviso con loro. Perché le foto in quei momenti arrivano per ultime, arrivano sempre per ultime e è stata una condivisione. Con alcuni di loro ho passato quasi un intero pomeriggio e ho passato un paio di ore a parlare prima e poi a scattare. Ho avuto scambi molto, molto profondi, ho trovato tormenti affini e personalità affini, personalità anche no, ma è stato molto bello comunque condividerci e è stato veramente super gratificante, super super gratificante.
Iride: C'è qualche episodio in particolare che ricordi piacevolmente?
Jacopo Paglione: Certo, ce ne sono un paio in realtà. Il primo che mi viene in mente in realtà è la prima foto che ho realizzato che poi è diventata un po' la foto simbolo del progetto. È questo Justin, questo ragazzo albino, afroamericano albino che ho dovuto rincorrerlo un pochettino per fotografarlo e alla fine ce l'abbiamo fatta. E mi ha accolto con un sorriso incredibile alle undici di mattina con del whisky e abbiamo fatto colazione così e siamo stati in cucina con lui e il suo patrigno a parlare di come è cresciuto lui e di come è stato essere albini per la comunità afroamericana.
È stato molto interessante come conversazione e mi ha accolto a casa sua, a casa proprio di famiglia, una casa un po' trasandata, super super vissuta. Abbiamo scattato in casa nella camera di suo fratello dove dormivano insieme. Una camera proprio che aveva storie e storie da raccontare, serate, notti passate in qualsiasi condizione. Insomma, è stato molto bello che la prima persona che mi ha aperto la porta è stata poi quella che mi ha permesso di fare tutto il resto.
È stata un'esperienza talmente catartica per me, talmente bella e talmente pregna di significato che poi ha letteralmente dato il via libera e mi sono dato una pacca sulla spalla da solo dicendo "Vai, hai avuto una giusta intuizione e continua così perché avrei solamente cose belle da da raccontare".
L'altro episodio che mi viene in mente è questo ragazzo di Berlino, Jeff che praticamente mi ha accolto in camera sua. Era una camera abbastanza piccola e sul muro aveva messo in ordine cronologico tutta una serie di illustrazioni che lui aveva fatto su tutti i suoi stati d'animo ed era abbastanza interessante vedere proprio tutta la cronologia e c'era questa parte di muro ancora vuota perché era ancora da disegnare.
Mi è piaciuto tantissimo perché lui è stato uno di quelli che mi ha permesso di essere me stesso e siamo stati veramente un pomeriggio intero insieme a parlare e con nostra grande sorpresa ci siamo trovati super affini, super super affini, parlando di cose estremamente profonde e le foto poi sono durate dieci minuti. Dieci minuti perché tutto il resto è stato talmente così bello che ci siamo caricati così di tante energie che poi le foto sono venute da sole e è stata una cosa estremamente bella.
Iride: Negli anni hai fotografato anche personaggi pubblici del mondo della TV e della moda: Drusilla Foer, Matteo Oscar Giuggioli, Rocco Fasano e molti altri. In che modo lavorare con personaggi pubblici che hanno già raccontato la loro vita pubblicamente e spesso è diverso rispetto ai lavori che hai fatto, per esempio, con Bedroom Tales.
Jacopo Paglione: È abbastanza diverso, perché devi comunque tenere in considerazione la persona e il personaggio. Non puoi snaturarlo troppo però una mia prerogativa e una mia condizione è quella di poter metterci del mio sempre. È diverso perché bisogna bisogna essere più attenti, bisogna avere leggermente più rigore, più disciplina.
Però di nuovo sono stato sempre abbastanza fortunato perché ho sempre avuto più o meno carta bianca o comunque sono sempre stato in grado di mutare senza mai snaturare me stesso.
Iride: Hai parlato precedentemente delle pressioni che hai sentito quando eri adolescente, hai parlato di sogni traditi, di pressioni sociali, di aspettative molto alte nei tuoi confronti o comunque nei confronti della generazione millennial di cui fai parte.
In che modo queste pressioni ti hanno portato a diventare fotografo, se sono parte delle ragioni che ti hanno portato a diventare un fotografo?
Jacopo Paglione: In parte sì, mi ci fai riflettere tu adesso perché mi ricordo quando ero ragazzino, come già ti dicevo all'inizio la musica è stata molto, molto importante per me, è stata quasi tutto.
È stata la mia compagna di viaggio, un po' la mia migliore amica, la mia fidanzata, mia madre anche a volte e quando è arrivato il momento di decidere cosa fare dopo il liceo ho consapevolmente deciso di abbandonare l'interesse che avevo nel senso pratico, perché comunque avevo una band, mi piaceva suonare e cantare. Però ho deciso di ripiegare sulla fotografia che comunque non è un ripiego, assolutamente. È stato un'altra mia compagna, una compagna silenziosa rispetto alla musica, perché mi ha sempre accompagnato in silenzio.
Non c'era una corrispondenza tra ciò che ero, ciò che volevo è quello che mi si presentava davanti perché venendo da un paesino estremamente piccolo di cinquemila abitanti, le possibilità sono automaticamente molto ridotte. E io ero la classica storia del freak del Paese che aveva i capelli diversi, ascoltava musica demoniaca, si vestiva in maniera diversa e poi effettivamente aveva anche un un un grandissimo come dire... mi viene da dire difetto ma non è un difetto ovviamente. È il mio orientamento sessuale.
Avevo tanti punti a sfavore. Ecco, mettiamo mettiamola così, tanti punti a sfavore.
Quindi mi sono reso conto dopo con gli anni che la fotografia mi è stata a fianco, è stato il mio modo per accettare e per guardare il mondo e renderlo mio e ritrarlo e ad avere dei ricordi di cose che me lo facevano piacere.
Iride: Raccontando di Bedroom Tales hai raccontato di una tua ricerca all'interno didi questo progetto. Tu andavi a cercare te stesso in qualche modo nelle camere delle persone che fotografavi. Volevi in qualche modo fare un percorso di ricerca su te stesso.
Hai fatto un percorso simile quando hai vissuto pubblicamente o iniziato a vivere pubblicamente il tuo orientamento sessuale, oppure è stato un percorso totalmente diverso?
Jacopo Paglione: È stato un percorso abbastanza diverso. Perché avevo una paura incredibile a uscire fuori in una realtà così piccola e la paura si è protratta per anni. Paura che è diventata quasi riservatezza.
L'ho fatto abbastanza in maniera molto, molto timida e molto riservata. Ho sempre cercato il mio modo di esprimerlo e di esprimermi, di vivere la mia omosessualità nella mia maniera. Diciamo che per i primi anni camminavo per la città con lo scudo e con gli occhiali da sole. Poi piano piano mi sono mi sono sciolto complice anche il fatto che ho iniziato una relazione poco dopo. Relazione che tuttora c'è, quindi parliamo di tredici anni e mezzo ormai.
E soprattutto anche le mie due migliori amiche che mi hanno sempre fatto sentire. accettato, quindi insomma è stato tutta una serie di ingredienti che poi mi hanno portato a essere chi sono adesso ma l'ho sempre fatto in maniera molto mia intima e metabolizzando tutto da solo.
Iride: Quando eri un adolescente, raccontavi in un'altra tua intervista, spesso prendevi il tuo skateboard, andavi nelle periferie della tua tua piccola città e esploravi edifici abbandonati, esploravi luoghi in costruzione, ... Nel tuo ultimo lavoro che è Milza, riprendi spesso questo tipo di spazi e porti delle persone nude all'interno di questi spazi e le fotografi.
Che cosa significa per te uno spazio abbandonato, un edificio abbandonato?
Jacopo Paglione: In Milza tutto ciò che vedi ha un proprio posto, ha il proprio senso. E Milza è un lavoro molto sofferto che parla di un mio conflitto interiore molto grande che è nato appunto in un momento in cui era quasi ingestibile. Sentivo quasi come se avessi dentro di me una persona grande tre volte la taglia del mio corpo, quindi non riuscivo più a legarlo e quindi ho usato una serie di dati e di escamotage per poter parlare di ciò che sentivo.
In questo caso l'edificio abbandonato è un edificio che è ostile alla presenza dell'uomo ormai o che è stato usato per un po' e poi lasciato a se stesso e proprio questo elemento mi è stato utile per tradurre quella sensazione di alienazione e di oppressione che in quel momento sentivo.
Insieme a elementi abbandonati ci sono anche in realtà l'altro lato della medaglia, che sono elementi naturali, quasi lunari. Anche loro comunque a vista quasi estranei alla presenza dell'uomo, quasi come se non dovesse esserci. Ragion per cui ho usato questi corpi nudi, minuscoli, piccoli piccoli, in questi spazi enormi vastissimi per tradurre proprio questo senso quasi anche di di castrazione, di impossibilità ad essere, ad esserci.
Mi sono ritrovato molto anche nelle parole e nel credo di Karl Gustav Jung per quanto riguarda l'idea di ombra che l'ho usata anche come traduzione: tutti quegli aspetti che noi recepiamo come negativi o inaccettabili di noi stessi e poi per tradurre in maniera fotografica.
Tutta l'idea dietro Milza è proprio quella di rendere materiale ed esorcizzare tutta questa sensazione di mostro interno che c'era e avevo proprio un un bisogno di renderlo materiale. Una delle mie più grandi gioie è stata quella di averle fatte con le persone a me più care. Tutte le persone ritratte sono le persone a me vicine che sono state un po' le vittime quasi di questo mio malessere.
C'è anche mio padre in una foto. È stato un grandissimo privilegio avere loro come soggetti, vederli pronti a posare, a spogliarsi di tutto e ai miei occhi è stato quasi un pulire la relazione che c'era tra noi ed è stata una cosa incredibile, una cosa bellissima.
Un'altra grande gioia una volta che ho avuto il coraggio di terminare o di dichiarare finito il progetto è stato quello di tirare un sospiro di sollievo, di guardare a quello che è stato e dire "Dai Jacopo! L'hai fatto, tranquillo, è andato tutto bene. È finito". È stato veramente un momento incredibile.
Iride: In che modo sei entrato in contatto con Jung?
Jacopo Paglione: Sono entrato in contatto con Jung perché, vista la difficoltà del periodo che è stato un periodo abbastanza buio di forte conflitto interiore e anche depressione, ho iniziato un percorso di psicoterapia che mi ha salvato la vita che dura da tanti anni. E proprio durante le mie sedute, parlando anche della mia difficoltà ad esprimermi fotograficamente in maniera artistica che chiaramente è la maniera in cui io so esprimermi meglio - forse - chiedendo aiuto, chiedendo pareri alla mia dottoressa, mi ha dato un paio di spunti.
Da lì poi mi sono informato da solo andando andando a leggere, informandomi, e complice anche in realtà il fatto che in quel periodo avevo deciso di iniziare una masterclass di progettazione fotografica e grazie anche all'aiuto di due grandissimi che sono Annalisa D'angelo, curatrice, e Alvaro Di Primo, fotografo che saluto, sono riuscito a mettere tutti i tasselli insieme, sia il tema, la realizzazione, la tecnica e anche grazie ovviamente al percorso di terapia.
Io dico sempre che mi fa anche abbastanza sorridere poi guardare il mio lavoro da fuori perché è esattamente una rappresentazione della mia crescita perché Milza è stato in realtà il mio primo progetto. Un progetto che parla di castrazione, un progetto molto chiuso, molto, molto chiuso, molto intimo, che guarda tantissimo dentro di me ed era una cosa che dovevo fare e che avevo bisogno di fare all'epoca.
Una volta chiuso quel capitolo è arrivato Bedroom Tales ovvero quello che mi ha aperto al mondo, dove anzi in realtà mi sono aperto io al mondo e mi fa sorridere perché una volta chiuso un capitolo mi sono letteralmente aperto agli altri e ed è stato tutto un andare così mano nella mano. E una volta terminato quello ho iniziato a lavorare sul mio rapporto con le mie persone care, con la figura dell'uomo - del maschio intendo - e a esplorare la mia omosessualità anche in ciò che faccio.
Iride: Nel 2021 hai lavorato con l'associazione Fiore del Deserto per un progetto particolare molto diverso rispetto a quello che hai fatto fino a quel momento e decisamente interessante.
Di che cosa si è trattato?
Jacopo Paglione: Il Fiore del Deserto è un'associazione che aiuta minori in condizioni di difficoltà che possono essere di emarginazione, problemi familiari, problemi mentali, immigrazione, abusi di ogni tipo e è stata una collaborazione nata perché sentivo il bisogno di dover dare, di dover concedermi, di dover regalare a qualcuno ciò che sapevo fare.
Complice anche la situazione mondiale dopo pandemia e la difficoltà, del periodo e la mia sensibilità verso un sacco di tematiche e ho sentito l'impulso di volere e dover dare a qualcuno qualcosa. Cosa che prima di allora non avevo fatto. Quindi ho contattato loro tramite una conoscenza in comune che ha lavorato per loro e ho mandato una mail dichiarando il mio interesse. Mail che è stata ignorata all'inizio ma dopo un po' di mesi mi hanno ricontattato riformulando la mia proposta. La mia proposta iniziale era quella di stare vicino ai ragazzi e raccontare le loro storie. Loro hanno riformulato la proposta.
Hanno preso un po' la palla al balzo chiedendomi se fossi stato disponibile a tenere un laboratorio di fotografia. Non era nei miei piani ma e non potevo dire di no. È stata un'esperienza incredibile, assolutamente nuova ed è stato una sfida sia per me che per loro in realtà. Praticamente loro vivono in questa in questa comunità e vengono seguiti nella loro vita. C'è chi va a scuola e chi no e sono tenuti ad avere qualche laboratorio ricreativo.
Per essere un po' reintegrati nella società o avere un po' di contatto con diverse attività o diversi ruoli. Insomma per far pace un po' con la società.
Ho voluto dare un approccio alla cosa un po' diverso. Non ero io che volevo insegnare la fotografia, ma era un modo per loro di usare la fotografia come racconto. Quindi non ci interessava la tecnica, non ci interessava niente di tutto ciò ma era semplicemente usarla come metodo espressivo.
Sono ragazzi tra i dodici, tredici, quindici, sedici anni che magari sai nel mondo di oggi, la fotografia è cotta e mangiata. Magari non si è abituati ad avere un concetto, un'idea dietro l'immagine o soprattutto anche su un corpo di lavoro. Corpo di lavoro per loro era una cosa assurda, cioè non concepibile.
E ho deciso di farlo e di sfidarli proprio alla luce di questo, usando solamente macchine analogiche e macchine usa e getta che per loro era una diavoleria quasi.
Quando hanno visto il rullino non gli sembrava vero e dopo un po' di scetticismo iniziale poi ho visto proprio l'interesse e la curiosità nell'aspettare risposte, nell'aspettare risultati e è stata un po' una sfida, appunto perché la fotografia analogica mi ha e li ha aiutati ad avere più coscienza dietro gli scatti ed avere più più consapevolezza e più intelligenza dietro. Perché chiaramente non puoi fare tutto ciò che vuoi, non hai tutte le possibilità del caso.
Gli ho letteralmente ritirato i telefoni. Ed è stato bellissimo comunque vedere la loro reazione e la loro risposta. Ho avuto progetti sulla noia.
È stato molto, molto bello, in realtà. Ed è stato divertentissimo vedere.
C'è questa ragazza che ha fatto tutte queste foto su letteralmente la noia dell'essere adolescente: andare a scuola, fare i compiti. C'erano milioni di foto su sui libri. E poi c'era quest'altra ragazza che ha deciso di fare tutto in Polaroid che ha fatto questo mini progetto sulla salute mentale nel senso per spiegarmelo ha detto letteralmente queste parole: "queste foto è per farvi vedere quanto sono pazza".
Quindi è stato bellissimo anche questo ed è stata un'esperienza incredibile. È stato un anno scolastico intero, più o meno da ottobre a giugno e alla fine di di questi mesi ho realizzato una piccola fanzine con i loro lavori e una piccola mostra.
Una delle esperienze più belle che ho fatto.
Iride: Tu normalmente lavori in analogico o è una scelta legata solo a quel laboratorio?
Jacopo Paglione: No, io lavoro maggiormente in analogico. Direi che l'85% di ciò che faccio è analogico ormai.
Ho iniziato in digitale ti dirò. Milza e Bedroom Tales tutti quanti sono stati realizzati in digitale. Da cinque anni, più o meno, ho iniziato a lavorare solamente in analogico e posso dire che non non so. Perché in realtà forse l'uso che facevo del digitale era tanto.
Per realizzare le foto di Milza e Bedroom Tales c'è tantissimo lavoro dietro di post-produzione. Non altero le foto, ma se vedi sono tutte foto panoramiche, hanno un formato abbastanza bizzarro. È quasi sedici noni e per realizzarle non è solamente un taglio ma anche in sede di scatto ogni foto è realizzata da almeno otto/dieci scatti poi uniti insieme.
Quindi dietro ogni scatto c'è tanto lavoro di post-produzione per raddrizzare le linee, che tutto sia dritto e perfetto, raddrizzare le prospettive quindi forse mi viene da dire ho avuto quasi un rigetto dopo. Quindi ho avuto questa riappropriazione del metodo analogico è stato molto, molto bello, a volte un po' un tedio, però mi ha dato tantissima sicurezza. Ancor più sicurezza in ciò che faccio perché chiaramente è uno strumento più complesso, con meno possibilità e mi ha reso ancora più cosciente e consapevole dietro la macchina.
Lo sono sempre stato e forse lo sono sempre stato troppo e, ti dirò, forse non è stata la scelta giusta perché adesso sono bello quadrato però, detto questo, mi sto di nuovo riavvicinando al digitale e spero di di riarrivarci con un bagaglio nuovo e spero di avere la stessa relazione che avevo prima col digitale.
Iride: Come reagisce di solito il pubblico ai tuoi lavori?
Jacopo Paglione: II pubblico in genere reagisce molto bene. È curiosa, molto curiosa di sapere, di capire come e perché succede quello che stanno vedendo. Nei miei lavori c'è sempre un'idea dietro, c'è sempre un sentimento e uno sforzo dietro. Però una cosa che ho sempre detto è che a me piace sussurrare le cose. Mi piace sempre non essere così chiaro.
Mi piace sempre dare libertà a chi guarda. La libertà di trovare se stessi in ciò che si vede. E quindi vorrei che ci fosse anche questa condivisione del capire, di sapere cosa si prova e cosa si sente. Non lo faccio con intenzione. Non è la mia intenzione primaria sussurrare ma è perché sono fatto così. Mi viene naturale.
Mi viene spontaneo lavorare in questo modo però mi piacerebbe un po' più di interazione.
Iride: Ti è capitato e ti capita ogni tanto di lavorare con altre artiste o altri artisti LGBTQ o lavori principalmente da solo?
Jacopo Paglione: Lavoro principalmente da solo. Io sono una persona che lavora bene e meglio in solitaria. Non ti nego il mio desiderio di condividere, di dividere il lavoro con qualcun altro. Non è ancora capitato del tutto e mi piacerebbe mi piacerebbe un sacco condividere esperienze e mani in qualcosa di comune.
Sarebbe in realtà un onore però sono sempre stato abbastanza solitario in ciò che faccio perché è sempre comunque molto sentito tutto il mio processare, metabolizzare esperienze, vissuti, sentimenti e quant'altro.
Iride: C'è qualcuna o qualcuno con cui cui vorresti collaborare?
Jacopo Paglione: Ci sono due persone che mi vengono così al volo. Sono entrambe due grandissime amiche. La prima è Ludovica Anzaldi, che è questa fotografa pazzesca, incredibile e molto spesso ci dicono che lei è la mia versione femminile. Io non sono pienamente d'accordo. Visivamente okay, un pochettino, però non sono pienamente d'accordo perché lei è una forza della natura. Lei ti sbatte in faccia.
Lei parla di corpi di donne, dell'essere donne, di maternità ed è una persona e una fotografa incredibile. Quindi è molto più incisiva, è più forte col messaggio, è più diretta e mi piacerebbe trovare un punto in comune, mi piacerebbe collaborare con lei in questo senso e darci, scambiarci esperienze.
Un'altra persona è Ornella Mercier, anche lei grandissima amica che ha una forza visiva e tematica incredibile e vorrei attingere anche da lei.
Per ora mi sto concentrando e vorrei continuare con ciò che sto facendo, ovvero sono anni in cui cerco di dare testimonianza al mio vissuto da persona omosessuale, ovvero dar luce sulle mie relazioni e, onorare le persone che mi circondano.
È un lavoro anche tra lettera d'amore e diario ma anche allo stesso tempo ci pensavo tempo fa che in realtà è una sorta di decostruzione della figura maschile. Io sono sono cresciuto con l'idea che la figura maschile sia intoccabile, infallibile e quindi ho avuto sempre parecchia distanza crescendo con la figura maschile. Negli ultimi anni dove mi sento molto più a mio agio con me stesso e con l'altro sto cercando un po' di riappropriarmi, di riavvicinarmi alla figura maschile.
Un po' di decostruire questo mito che mi è stato insegnato da piccolino e lo faccio guardando l'altro con amore, con grande rispetto.
Iride: In questo periodo stai lavorando con BOYS! BOYS! BOYS! Di che cosa si tratta e che lavoro stai facendo con loro?
Jacopo Paglione: BOYS! BOYS! BOYS! è una galleria prevalentemente online che ha in roster più di sessanta fotografi omosessuali che tratta temi affini. Ho vinto lo scorso gennaio la loro open call per quanto riguarda i nuovi talenti e da lì sono appunto entrato a far parte della loro galleria e con loro sono andato... mi piace dire che sono andato in tour... però li ho seguiti per fiere e festival fotografici, quindi sono con loro ovunque fanno apparizioni.
Ho fatto mostre con loro, sono andato al book signing con loro, dovevo essere al Paris Photo quest'anno, ma purtroppo non ci sono riuscito però sono stato a Arles con loro.
È una galleria molto bella che ha delle uscite quadrimestrali di fanzine e quest'anno è uscito anche il primo libro che racchiude tutti questi anni di lavoro e quindi i lavori che hanno di più la storia di BOYS! BOYS! BOYS! e tramite loro ho avuto ho avuto molte possibilità tra cui, insomma quella di essere incluso innanzitutto ovviamente nel loro libro, ma anche recentemente in Queer Pandemia che è la seconda edizione della mostra dei ragazzi di di Ultraqueer.
Iride: Che cosa significa per te essere queer?
Jacopo Paglione: Essere queer per me è tutto nel senso che ognuno poi dà una definizione propria all'essere queer. Io nella mia concezione di ciò che penso sia quello di esserci, essere forti, chiari, visibili, attivi e nel farsi sentire e farsi vedere più che si può, partecipare attivamente alla vita, alle problematiche, alle tematiche politiche, sociali.
Non è semplicemente essere... per me ripeto sempre per me, mia opinione... non è semplicemente avere un orientamento sessuale diverso ma è far parte di un movimento che va avanti, che guarda in avanti e che si fa rispettare.
Iride: Grazie mille per essere stato con noi. Potete trovare questa intervista, qualche contenuto speciale, tutti i contatti per andare a scoprire meglio Jacopo Paglione sul nostro sito iride punto art e nei link in descrizione.
Per non perdere i prossimi episodi di iride, potete iscrivervi alla newsletter sul nostro sito iride punto art seguirci sulle principali piattaforme di streaming tra cui Spotify, Apple Podcast e Google Podcast su YouTube e su Instagram. Grazie ancora e alla prossima.
Jacopo Paglione: Grazie mille Guido.